I Briganti de Monte Tajà
L’editoriale di Breaking News!
“E proprio quando la carrozza era costretta a rallentare perché la salita si faceva erta e le ruote slittavano sul fondo di terra e sassi della stradella stretta e scoscesa, dopo la curva cieca con le fronde della fitta vegetazione che impedivano di vedere a pochi metri, i briganti saltavano fuori dalla boscaglia con i loro cappellacci stracciati e gli schioppi agitati per aria, minacciavano il postiglione, afferravano le briglie dei cavalli costringendoli a fermarsi, facevano scendere i passeggeri e li rapinavano di tutto senza pietà …”
Chissà quante volte il nonno Duilio me l’ha raccontato con la sua voce profonda tenendomi sulle ginocchia quando ero piccolo. Qualche anno dopo, accomodato al suo fianco sul sedile della Lancia Ardea di un improbabile colore azzurro che comunque mi piaceva un sacco, me lo ripeteva nel momento in cui passavamo per la strettoia cupamente ombreggiata del famigerato Monte Tajà, il teatro di questi assalti di tanti e tanti anni prima. Non avevo paura perché la mano del nonno che mi sfiorava in una carezza era rassicurante, anche se nella mia fantasia si materializzavano terribili ceffi barbuti, urla di minaccia con grida di terrore come controcanto, neri mantelli svolazzanti, archibugi arrugginiti e caricati a mitraglia.
Non ho mai saputo quale fosse l’ambientazione storica di queste truci vicende perché, allora, la mia percezione del tempo era estremamente vaga. Poteva essere l’ottocento (d’altronde il nonno era nato nel 1888) o magari anche il settecento, prima della discesa di Napoleone che nelle sue campagne d’Italia sarebbe passato proprio a qualche chilometro da lì. Oggi il panorama è tutto diverso: la boscaglia si è sfoltita lasciando spazio a vigneti perfettamente allineati, la strada è asfaltata e un semplice cambio di marcia fa superare l’erto pendio, tutto attorno è uno spettacolo di abitazioni coloniche trasformate in trattorie, B&B o seconde case di campagna. Il lago di Garda si intuisce dietro al crinale delle colline e il Monte Tajà delle mie storie che assomigliavano a favole si ritrova tra i campi sportivi di Veronello e il centro commerciale al casello di Affi, Autostrada del Brennero.
I briganti sono spariti?
Di briganti sembra non rimanere traccia. O magari mi sbaglio? Non passa settimana che trombe dei Media, impegnati ad affastellare sulle nostre spalle notizie raramente positive e incoraggianti, non ci ammannisca scenari di aziende che con un SMS, un Tweet o una email, dalla mattina alla sera sbattono in strada camionate di dipendenti. Stanno per fallire? No, guadagnano milioni di Euro e per guadagnare miliardi spostano altrove stabilimenti, centri direzionali e – dulcis in fundo – sedi fiscali. Poi magari le loro previsioni e i business plan di amministratori delegati dallo stipendio affollato di zeri non si dimostrano così preveggenti. Ho recentemente saputo – una soddisfazione sadica ma, purtroppo, fine a sé stessa – di una multinazionale del nord Europa che aveva spostato dall’Italia alla Cina quasi tutte le attività. Per una specie di nemesi, il suo quartier generale sta in uno di quei Paesi che si autodefiniscono farisaicamente “frugali”, tanto per fustigare la nostra italica (indiscutibile, ma non così marcata né esclusiva come dicono) abitudine alla dissipazione.
Stabilimenti chiusi, persone spedite ai cosiddetti “ammortizzatori sociali” con espressione che fa accapponare la pelle. Tempo un paio d’anni e si sono accorti, tra altri intoppi tutt’altro che banali, che il settore ricerca e sviluppo di nuovi prodotti, punta di diamante della sede italiana, con i talenti cinesi ha poco da spartire. Gran lavoratori questi ragazzi con gli occhi a mandorla, sempre disposti al sacrificio e professionalmente ferratissimi. Ma l’inventiva, la capacità di immaginare e poi realizzare dal nulla novità di successo pare non essere nelle loro corde.
Per farla breve, la multinazionale è tornata in Italia, sta cercando di trovare ed attrezzare un nuovo stabilimento al posto di quello chiuso in fretta e furia ma soprattutto sta contattando affannosamente i suoi ex collaboratori per “ricomprarli” a qualunque prezzo. Il mio sincero augurio è … lasciamo perdere.
Senza santificare nessuno
Senza santificare nessuno e senza voler dare lezioni di economia, continuo testardamente a credere nell’uomo e nella possibilità di studiare soluzioni che armonizzino le differenti esigenze – del capitale ma anche della forza lavoro ai vari livelli – e minimizzino le conseguenze di qualche fase di crisi che comunque nel tempo capita regolarmente.
Mi si materializza davanti agli occhi l’immagine del Cav. Luigi Lucchini che, nel clima di feroce contestazione e legittime rivendicazioni di inizio anni ’80, alle centinaia di dipendenti che erano andati ad assediarlo a casa sua, tra vociare di megafoni e sventolio di minacciosi stendardi rossi, ha dato la risposto più inaspettata. E’ uscito da solo in maniche di camicia tra di loro, aprendo senza timori il cancello della villa, ha iniziato ad ascoltare le lamentele di ciascuno sollecitandolo ad esporle, ha trasformato un conflitto di “tutti contro una immagine stereotipata” in un confronto tra persone, sia pure con ruoli, obiettivi ed idee niente affatto coincidenti. Per chiudere, un vero tocco di classe: attenuatasi la tensione, ha fatto cenno al cameriere di offrire a tutti qualcosa di fresco e dissetante, un ristoro per la calura. Era un autunno caldo e non solo in termini sindacali.
Ho assistito alla scena assieme a qualche collega: dalle finestre dell’ufficio, dall’altra parte della strada, oltre a vedere sentivamo perfettamente che cosa dicevano. Non è un modello ripetibile, anche perché il contesto lavorativo di oggi si sviluppa con dinamiche del tutto differenti. Non fingo neppure di ignorare che il Cav. Lucchini i suoi affari ha sempre saputo condurli in maniera accorta e a proprio vantaggio, ma quello che vorrei esprimere è che da una parte le relazioni di lavoro oggi non sono più da azienda a dipendente ma sfumano in un labirinto di ruoli, gerarchie e rimandi che raramente assumono un volto, un nome, una responsabilità; dall’altra che i collaboratori troppo spesso non vengono percepiti come persone ma come tessere di un Domino: troppo facile, con un singolo tocco, mandare a gambe all’aria i destini di tutta una catena.
Infine io continuo cretinamente ad essere convinto che persone motivate e orgogliose di quello che viene chiamato Brand – che nel loro piccolo alimentano e sentono pure proprio – siano incredibilmente più produttive, partecipi e disponibili di tutte le altre.
Nel chiudere vorrei chiedere un attimo di silenzio per i Briganti de Monte Tajà e i loro emuli dell’epoca. Nessuna giustificazione ai crimini e alle arcinote crudeltà, ma quasi sempre si trattava di ignoranti, affamati, reietti e disperati che non avevano trovato altra scelta per vivere, anzi per sopravvivere.
Nessuno di loro aveva conti segreti alle Cayman e sospetto che quelli che avevano sotterrato sotto la vecchia quercia un forziere di monete d’oro o un semplice fazzoletto con pochi talleri, marenghi, fiorini o quello che volete fossero davvero rarissimi. Essere briganti era il loro mestiere nell’impossibilità, all’epoca e nel contesto, di mettere in atto un più tranquillo e legale “Piano B”.
Alberto Delaini